I piaceri dell'ascolto
L’ascolto di queste registrazioni mi ha suscitato immediatamente un’impressione gradevole di cui stentavo a capire le ragioni e di cui ero quasi indotto a diffidare. Ho dovuto ripensarci e ho cercato di chiarire a me stesso il senso di questa impressione che inizialmente mi pareva difficile da motivare. Credo che la ragione principale di quella reazione stia nel fatto che il flauto e il clavicembalo sembrano qui possedere una voce nuova rispetto a quella della tradizione. E non parlo ovviamente del flauto e clavicembalo della tradizione classica, ma di quelli del Novecento. Il flauto dell’ultimo mezzo secolo, che aveva raggiunto un suo punto culminante nella “Gazzelloni Musik ” degli anni Sessanta e Settanta, aveva sempre proposto ricerche timbriche al limite fra suono e rumore, vertici inediti di virtuosismo, sonorità insospettate e provocanti: oggi ha conservato queste possibilità, ma le ha coniugate con altre risorse. È ancora capace di avventure timbriche, ma sembra essersi liberato del loro assolutismo: ora sa anche passare con disinvoltura ad aspetti di dolcezza e di cantabilità dai quali prima rifuggiva. È diventato come un uomo maturo che non ha cancellato gl’impeti dell’adolescenza ma li sa usare come, quanto e quando vuole.
Altrettanto potrei dire del clavicembalo. I musicisti della seconda metà del Novecento avevano scoperto il timbro senza sfumature di una macchina da suono sferragliante e meccanica, e se ne erano innamorati perché corrispondeva perfettamente alla loro diffidenza per l’espressività, alla loro ideologia antiromantica. Naturalmente il clavicembalo aveva ben altro dietro le spalle: nobiltà, squisitezze, eleganze, dolcezze facevano parte della sua carta d’identità, ma in quel momento non servivano. Anche in questo caso l’ascolto del disco ci insegna come gli anni siano trascorsi e come la sensibilità di oggi, senza rinunciare alle aggressività dei decenni passati, abbia anche acquisito possibilità espressive nuove, più curiose, più originali, più allettanti. In sostanza è come se i due strumenti avessero raggiunto uno stato di maturità, di disinibizione, di duttilità sonora che permette loro di lanciarsi in territori finora inediti. Fra gli aspetti di novità trovo che sia anche significativa la collaborazione fra i due strumenti. La tradizione, in questo caso la tradizione antica, voleva che la tastiera “accompagnasse” il canto del solista: non per niente il clavicembalo aveva avuto uno dei suoi momenti di maggior gloria all’epoca del basso continuo, e l’eredità di questa funzione basilare era stata lasciata poi al pianoforte. Nel nostro disco le cose sono diverse: qui ovviamente non servono più gli accordi e gli appoggi tonali su cui si basava tradizionalmente il compito di accompagnare, e dunque il clavicembalo è diventato un secondo solista, ricco di iniziative, di proposte timbriche dense, vivaci, accattivanti. Insomma, i due strumenti dialogano, diventano protagonisti o deuteragonisti a seconda delle situazioni, alternano le rispettive bravure con grande giovamento per gli orecchi di chi ascolta.
Per quanto si riferisce alla scelte delle musiche, la mia impressione è che l’ambizione di questo disco sia quella di offrire un panorama, non dico completo, ma sufficientemente rappresentativo delle tendenze diffuse fra i compositori di oggi. Gli orientamenti stilistici sono infatti assai vari, e probabilmente anche questa varietà ha giocato un ruolo nella gradevolezza iniziale di cui parlavo. Tuttavia la storia di questa varietà stilistica ha dietro le spalle vicende drammatiche: non è chiara e serena, anche se sembra piacevole, anzi direi che è tortuosa e sofferta. L’uscita dall’avanguardia “dura” dei primi decenni post-bellici è stata tutt’altro che indolore e tutt’altro che semplice. Nell’apparente disinvoltura delle scelte di oggi si annidano tensioni, dubbi, strappi e violenze e magari risentimenti ancora attivi. Il disco però non è di parte, non rivela predilezioni per l’una o l’altra delle varie tendenze in contrapposizione: permette le convivenze, attenua le scosse, ha una sorta di serenità ecumenica ed è capace di documentare imparzialmente l’esistente. Che è un vantaggio non da poco per chi ha la curiosità di capire dove sta andando il mondo. Fino a qualche tempo fa, infatti, la musica cosiddetta contemporanea doveva risultare sgradevole aggressiva e provocatoria, una sorta di protesta nei confronti di un mondo che andava verso mete disperanti. Questi pezzi, anche se possiedono tecniche smaliziatissime, quasi mai sono provocatori: sanno essere aggressivi, conservano momenti di corrosione, ma in genere non fanno di questo carattere il loro punto di forza.
Vogliamo etichettare tutto questo in termini di “postmodernità”? Per quel che vale l’etichetta è forse possibile, ma piuttosto delle etichette è forse più utile cercare qualcosa nei contenuti. Ad esempio c’è un aspetto curioso che colpisce l’ascoltatore: sembra che si stiano riscoprendo oggi delle verità umane alle quali l’orecchio odierno non era più abituato. Alcuni pezzi sono emotivamente impegnati, intensi e drammatici, persino violenti, altri pezzi sono più distesi e leggeri, altri più divertenti, alcuni sono sottili e aerei, altri sono ironici. Insomma ogni pezzo possiede un suo “umore” come avrebbe detto Orazio Vecchi all’epoca in cui componeva e presentava le sue Veglie di Siena (1604). La scoperta di umori più o meno patetici o bizzarri, agli inizi dell’epoca barocca, faceva seguito all’aurea e un po’ indistinta solennità dell’estetica palestriniana. Monteverdi la chiamava seconda pratica. Ma è possibile che anche noi stiamo entrando in una seconda pratica artistica, che fa seguito all’austerità e al rigore degli anni del dopoguerra? E che motivazioni ci sarebbero per questo mutamento? Forse siamo di fronte a una riscoperta della confidenza comunicativa e della fiducia nei sentimenti umani? A giudicare da come sta andando il mondo in questi anni una prospettiva del genere non sembrerebbe proprio credibile. O forse gli artisti vedono più profondo o più lontani degli altri esseri umani? C’è da augurarselo, anche se a me personalmente sembra improbabile. Dunque, per concludere, non ho che una strada. È limitata, è neutra, è banale, ma è forse l’unica possibile: dirò semplicemente che siamo di fronte a un disco che si fa ascoltare bene, e che può piacere anche a chi non è esperto di musica contemporanea.
Mario Baroni